Detassare le donne per incentivare l’occupazione femminile. Una prospettiva che è stata già discussa tante volte in Italia, ma che, come spesso accade, non è mai stata concretamente attuata. L’obiettivo di una gender tax, sul modello svedese, dovrebbe essere quello di ridurre il divario occupazionale di genere, favorendo così l’assunzione di lavoratrici (che in Italia sono particolarmente svantaggiate rispetto al resto d’Europa).
Il punto è che in Svezia hanno provato ad applicare un’idea italiana. Per la loro riforma, si sono ispirati a una teoria sistemata da due economisti nostrani: Andrea Ichino e Alberto Alesina. Il principio è semplice: con la gender tax si ottengono sgravi fiscali o esenzioni contributive per le aziende che assumono donne. Ma non solo.
Alcune misure fiscali particolari favoriscono direttamente le lavoratrici, soprattutto quelle con redditi medio-bassi: ed è qui che le donne pagano godono di una riduzione delle imposte sul reddito per le lavoratrici. In Svezia ci sono anche numerose agevolazioni per le madri lavoratrici: contributi per asili nido e vari servizi di conciliazione lavoro-famiglia.
I risultati sono stati così incoraggianti che, ormai, gli incentivi servono a poco e sono dunque destinati a scomparire. Lì, la parità di genere a livello lavorativo e finanziario è quasi cosa fatta. E in Italia? Da noi le cose vanno piuttosto male. Secondo il Global Gender Gap Index 2024, l’Italia andava collocata all’87° posto su 146 Paesi per ciò che concerne la parità di genere. Nel 2023 eravamo al 79° posto.
Il miraggio della gender tax in Italia
In termini di occupazione, la disparità è evidente: solo il 52% delle italiane ha un lavoro, mentre gli uomini superano il 70%. Inoltre, le donne guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini a parità di ruolo. La gender tax potrebbe dunque rivelarsi una ricetta giusta per il contesto italiano.

Il Governo Meloni aveva promesso interventi mirati per favorire l’occupazione femminile. Ha rafforzato il congedo parentale, aumentando le mensilità retribuite all’80%. E ha anche innalzato il Bonus Nido fino a 3.600 euro annui e introdotto l’azzeramento dei contributi fino a 3.000 euro annui per le lavoratrici con almeno due figli. Ma nulla è stato fatto per ridurre le tasse pagate dalle donne. E poi c’è il Bonus Donne 2025, che prevede 650 euro al mese di sgravio contributivo per le aziende che assumono lavoratrici in condizioni di evidente svantaggio.
Di base, la detassazione sarebbe poco gestibile da un punto di vista economico per il bilancio dello Stato. E non è tutto… L’ipotesi di una detassazione delle donne, qui in Italia, solleverebbe vari interrogativi sulla costituzionalità della misura. L’articolo 3 della Costituzione afferma infatti che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di genere, provenienza, religione o altre caratteristiche personali. E far pagare meno tasse alle donne potrebbe far sorgere dubbi di discriminazione.
L’idea non va tuttavia abbandonata. Anche perché l’equità è un principio tutelato dalla Costituzione tanto quanto l’uguaglianza. E di equità, nel nostro Paese, ce n’è poca, almeno rispetto alla parità di trattamento.