Chi vive con un bambino piccolo conosce bene la sequenza infinita di “perché” che può scatenarsi in qualsiasi momento della giornata. La colazione diventa il teatro di domande sul latte, un viaggio in macchina si trasforma in una lezione improvvisata di fisica delle nuvole, e persino una passeggiata può aprire dibattiti sul perché i tavoli siano duri o gli uccelli non cadano dal cielo. All’inizio fa sorridere, perché quelle domande hanno qualcosa di tenero e spiazzante.
Poi però arrivano a ondate, senza tregua, una dopo l’altra, e a volte la pazienza dell’adulto si mette alla prova. Questa fase, che i genitori spesso raccontano con una miscela di divertimento ed esasperazione, è in realtà un passaggio cruciale nello sviluppo del linguaggio e della curiosità. Non è solo un gioco né una strategia per attirare attenzione, anche se ovviamente il contatto con mamma o papà resta parte della ricompensa.
Quelle domande ripetute servono al bambino per orientarsi in un mondo che ogni giorno appare nuovo, ricco di stimoli e di misteri da decifrare. Ed è proprio osservando questa instancabile ricerca che possiamo entrare, anche solo per un istante, nel loro modo di vedere le cose, fatto di meraviglia continua e di un bisogno irrefrenabile di capire.
Quando il “perché” diventa la parola preferita dei bambini
L’adulto, travolto da questo flusso continuo, a volte ha la sensazione che il bambino non ascolti davvero. Si fatica a credere che dietro a quel “perché” insistente ci sia un reale interesse. Eppure basta provare a rispondere con una sciocchezza per capire che non è così. I bambini colgono al volo la differenza tra una risposta seria e una inventata, si arrabbiano se percepiscono leggerezza, si offendono se capiscono che non vengono presi sul serio.
Questo dettaglio dimostra che dietro la raffica di domande non c’è soltanto il gusto del gioco, ma un’attenzione autentica a ciò che viene detto. Le spiegazioni degli adulti non hanno solo il valore di un’informazione. Ogni risposta diventa una conferma di relazione, un segnale che mamma e papà ci sono e ascoltano.
Per questo il bisogno di sapere si intreccia con quello di sentirsi riconosciuti. E qui nasce l’ambiguità che spesso confonde i genitori: quanto di quella raffica di domande è fame di conoscenza e quanto è ricerca di vicinanza? In realtà le due cose si mescolano, perché per i bambini l’apprendimento non è mai separato dall’affetto.

Un altro aspetto affascinante è che i “perché” aiutano i piccoli a costruire schemi mentali. Ogni volta che chiedono e ricevono una risposta, collegano un concetto a un altro, tessendo una rete di significati che rende il mondo meno spaventoso. Il perché, ripetuto mille volte, non è solo curiosità ma anche un esercizio di orientamento, un modo per mettere ordine in una realtà che altrimenti resterebbe confusa. In questo senso le domande diventano mattoni con cui erigere la struttura del pensiero.
Per i genitori, naturalmente, non è sempre facile reggere il ritmo. Ci sono giornate in cui la stanchezza prende il sopravvento e si arriva a un punto in cui si preferirebbe restare in silenzio. In quei casi è meglio ammettere un “non lo so” piuttosto che inventare risposte. I bambini accettano l’incertezza molto meglio di quanto pensiamo, mentre non perdonano la superficialità. Anche dire che ci informeremo insieme può trasformarsi in un’occasione di complicità, in cui la ricerca della risposta diventa un momento condiviso.

Alla fine, i perché non sono soltanto strumenti di crescita per i bambini, ma anche specchi che rimandano agli adulti la capacità di stupirsi. Interrogarsi sul perché le nuvole non cadono o perché le navi galleggiano ci costringe a riattivare competenze dimenticate, a improvvisarci scienziati, filosofi, osservatori del mondo. È un esercizio di meraviglia che raramente ci concediamo da soli e che solo i bambini riescono a riportare con tanta forza nelle nostre giornate.
Così, dietro a quella raffica incessante, si nasconde una lezione preziosa: imparare non è un processo lineare né rapido, ma un percorso fatto di domande che aprono altre domande. E forse, se lasciamo spazio a quei mille perché, torniamo anche noi a guardare la realtà con occhi un po’ più curiosi.