Tiziana Cantone avrà mai giustizia?

In un processo penale sarà difficile dimostrare il nesso di causalità fra il suicidio e la diffusione del video

Tiziana Cantone avrà mai giustizia?

Quella di Tiziana Cantone è una vicenda dura da leggere. Un video è stato diffuso un anno e mezzo fa, prima via Whatsapp e poi sui social, con qualcuno che dall’applicazione l’ha diffuso online, fino ad arrivare a questa povera ragazza che ha subìto ogni tipo di offesa verbale. Dopo aver ottenuto un provvedimento – che è chiaramente arrivato a distanza di troppo tempo da quando è iniziata la diffusione – con l’ordine ai titolari dei vari social di oscurare il video, la ragazza si è suicidata.

Il primo problema è stato la lentezza della nostra giustizia: se, infatti, a una persona sfugge di mano una situazione su internet, purtroppo in media ci mette almeno un anno a vedersi riconosciuto il diritto all’oblio. La maggior parte dei gestori hanno sede all’estero e quindi è necessaria una procedura molto particolare per bloccare la diffusione.

A me è capitato di dover richiedere, per conto di un mio cliente, la rimozione di un video offensivo a Google e la Procura di Milano ha continuato per lungo tempo a dirmi che non era possibile agire, perché negli Stati Uniti non è previsto il sequestro per il reato di diffamazione. Alla fine ci siamo riusciti ottenendo il sequestro attraverso la sede italiana di Google. Le procedure risultano, infatti, essere troppo lente per bloccare in tempo offese di questo tipo, che invece viaggiano alla velocita’ della luce.

Non possiamo, quindi, muoverci con i nostri codici che sono parametrati su leggi del 1930. Per quanto i giudici e la magistratura possano fare, il sistema si basa comunque sulle leggi e fino a quando non saranno aggiornate non sarà possibile garantire un’uniformità di trattamento dei singoli casi.

L’altro problema è quello dell’inchiesta per istigazione al suicidio e la mia idea è che sia difficile che si arrivi a formulare un’accusa e, ancor piu’, a sostenerla in un processo.

Sicuramente ora apriranno un fascicolo e inizieranno, con l’autopsia, a verificare la causa della morte, poi gli inquirenti dovranno ricostruire gli ultimi mesi della vittima per capire se c’è altro rispetto alle offese subite a mezzo internet. Dovranno, quindi, capire se si sono verificati dei fatti ulteriori.

Se, invece, si è trattato soltanto dell’ultimo gesto dovuto a uno stress psicologico enorme, vedo difficile riuscire a provare l’istigazione al suicidio da parte di tutti coloro che su Facebook l’hanno insultata. Sarà difficile, infatti, dimostrare il nesso causale fra le offese e il suicidio. Ugualmente per chi ha diffuso il video, trasferendolo da Whatsapp al web, se non si prova che ha poi proseguito nell’offenderla e, quindi, che questo atteggiamento abbia così tanto inciso sulla psiche della ragazza da indurla a questo tragico gesto.

Se, inoltre, la ragazza non è stata in cura da uno psicologo – cosa che non mi pare di aver letto, anche perché in molti non pensano di aver bisogno dell’aiuto psicologico – chi può dimostrare cosa l’ha spinta a fare quello che ha fatto?

Per tutto questo vedo più probabile una sentenza a favore della ragazza in un processo civile, in cui i parenti potrebbero richiedere i danni a chi ha diffuso il video, compresi i danni derivanti dal decesso.

In ottica penalistica, invece, alla difesa sarebbe sufficiente sostenere che non c’è prova del nesso di causalità fra il suicidio e la diffusione del video. Perche’ si possa giungere, prima, a formulare un’accusa seria contro chi ha diffuso il video e, in seguito, a pronunciare una sentenza di condanna, sarebbe senz’altro necessaria una perizia psicologica.

Questa tragica vicenda ci dice, se ancora a qualcuno non fosse chiaro, che e’ necessario imparare a domandarci se chi ci circonda abbia bisogno di sostegno o aiuto.