Sud Sudan, Amnesty denuncia: violenze sessuali e migliaia di menti devastate dall'orrore

Il Sud Sudan è teatro di uno dei più gravi massacri dell'umanità. Un conflitto inaspritosi dal 2013 mette a dura prova la capacità di resistenza di intere popolazioni, in equilibrio precario tra carestie e orrori di una guerra che si combatte ormai dentro la loro anima: sono le vittime di cui parla il recente rapporto di Amnesty International, donne e uomini privati della loro dignità e finiti nel vortice di abusi difficili persino da immaginare. I combattenti non risparmiano i civili, e il dramma fisico si riflette in un crescendo di sofferenze psicologiche dagli effetti devastanti.

Sud Sudan, Amnesty denuncia: violenze sessuali e migliaia di menti devastate dall’orrore

Amnesty International denuncia: in Sud Sudan sono in atto violenze sessuali di massa, che mietono vittime a livello fisico e morale. Menti devastate dall’orrore di un conflitto che è dentro l’anima dei civili, che difficilmente potranno liberarsi di esperienze talmente traumatiche da diventare una presenza fissa che aliena le speranze sul futuro. Dal 2013 ad oggi, migliaia di donne e persino uomini subiscono abusi di inenarrabile gravità.

Sud Sudan: donne e uomini vittime di violenze sessuali su larga scala

Il rapporto di Amnesty International sulla situazione in Sud Sudan è tra i più cruenti resoconti di una guerra di uomini che si combatte oltre la trincea, esondando sino a distruggere i cuori di migliaia di civili, donne e uomini, che cercano aiuto. Il territorio è scenario di un aspro conflitto che dal 2013 è diventato anche simbolo di una continua violazione dei diritti umani la cui entità è difficile da arginare.
Il dramma in atto è un nemico subdolo, insinuato in modo capillare nelle storie personali di chi vive ogni giorno il brutale risveglio in compagnia della violenza, spesso nel totale anonimato di realtà che non verranno mai allo scoperto, nei reati che rimangono impuniti dietro lo scudo della paura di denunciare.
“Non rimanere in silenzio. Le sopravvissute alla violenza sessuale in Sud Sudan chiedono giustizia e riparazione” è il titolo del rapporto stilato da Amnesty, e al suo interno è facile perdersi nei meandri di una tragedia umana di immani proporzioni: le aggressioni sessuali di matrice etnica sono una delle maggiori piaghe collaterali dello scontro bellico nel Sud Sudan. Dall’inizio delle ostilità, alla fine del 2013, migliaia di persone hanno subito altrettanti abusi sessuali. Gli autori appartengono a entrambe le fazioni in conflitto, le forze governative del presidente Salva Kiir (di etnia dinka) e dell’ex vicepresidente Riek Machar (di etnia nuer).

Amnesty International: il resoconto dell’orrore

I conflitti sono come una seconda pelle sul corpo di chi li subisce, dura, se non impossibile, a scrostarsi nel tempo. Anche il popolo sudsudanese fa i conti con questo inevitabile effetto perverso della guerra, con l’aggravante che i reati contro l’umanità e la dignità compiuti in queste aree sono tra i più gravi e lesivi che si possano immaginare. Conseguenze psicologiche a medio e lungo termine sono il denominatore comune tra i civili, e non conosce sesso o età.
Migliaia di donne e ragazze sudsudanesi, ma anche uomini, hanno subito stupri, violenze che Amnesty, insieme a 10 tutori dei diritti umani nel Sud Sudan, hanno provato a raccontare al mondo.

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Stupri di gruppo, premeditati e condotti con tecniche di tortura

“Siamo di fronte a violenze sessuali di massa eseguite con premeditazione nei confronti di donne vittime di stupri di gruppo, penetrate con bastoni e mutilate coi coltelli”, ha dichiarato Muthoni Wanyeki, direttrice di Amnesty International per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.
“Queste azioni indifendibili hanno cambiato completamente la vita delle vittime, lasciandole alle prese con conseguenze debilitanti, di natura fisica e psicologica. Molte sopravvissute agli stupri sono state abbandonate dai loro mariti e dalle famiglie di questi e stigmatizzate dalla comunità d’appartenenza”, ha aggiunto Wanyeki.
Come spiega bene la direttrice di Amnesty per l’area africana orientale, dunque, il portato di una violenza sessuale subita in Sud Sudan non si estingue con la mortificazione della vittima nel compimento del reato: ci sono danni incalcolabili anche a livello sociologico, nei rapporti con la famiglia e la comunità, che spesso tendono a emarginare piuttosto che a reintegrare e riabilitare la persona che ha subito un abuso.

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Violentate, mutilate e uccise davanti ai loro cari

Le ricercatrici di Amnesty International hanno intervistato 168 vittime di violenza sessuale, tra cui 16 uomini, in città e villaggi di quattro stati del Sud Sudan (Equatoria centrale, Jonglei, Alto Nilo e Unione) e in tre campi per rifugiati nel nord dell’Uganda.
In alcuni dei casi studiati, gli aggressori hanno ucciso le donne dopo averle stuprate. Una di loro, per aver osato resistere all’abuso sessuale, ha subito la mutilazione della vagina con un coltello ed è morta pochi giorni dopo.
Nemmeno gli uomini sono immuni all’orrore: alcuni sono stati stuprati, altri castrati o torturati con aghi infilati nei testicoli. In un caso, particolarmente agghiacciante, 4 soldati hanno inserito dell’erba nell’ano di un uomo e hanno acceso il fuoco, assistendo alla sua lenta e atroce morte.
Sono i racconti dell’agonia, della miseria umana che diventa cattiveria, perfidia, insensibilità al dolore, e che necessita di un intervento incisivo su scala internazionale.

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I racconti dall’abisso della violenza

Una delle donne incontrate dall’organizzazione umanitaria è sieropositiva: si tratta di un caso come tanti in queste aree di conflitto, uno dei pochi a emergere dal limbo della paura. Le vittime del Sed Sudan riportano danni permanenti all’apparato riproduttore, spesso voluti dai combattenti di diversa etnia per impedire la procreazione della “razza” rivale. Difficoltà di concentrazione, amnesia, ansia e attacchi di panico sono alcuni dei quadri sintomatologici più diffusi. Così come la rabbia, il sentimento di impotenza, la sete di vendetta e persino gli isitinti suicidi fanno da cornice alla vita di molti sudsudanesi.
Disordine post-traumatico, lo definiscono gli esperti con un tecnicismo, ma più volgarmente è il male di vivere, dopo aver vissuto quella mole impressionante di abomini.
Jokudu, 19 anni, ha subito uno stupro di gruppo e ora non riesce a trattenere l’urina, perde sangue frequentemente. Come lei, Sukeji, stuprata davanti ai suoi due figli, ha incubi presistenti e vive nel terrore di non essere una buona madre. Jacob, costretto ad assistere al brutale stupro della moglie, ha ammesso di aver pensato al suicidio.

Una guerra intestina tra etnie sullo sfondo degli abusi

La guerra intestina tra etnie, che da anni divora il Sud Sudan, fa da sfondo a quanto descritto da Amnesty International. Nella maggior parte dei casi descritti, uomini dinka hanno attaccato donne nuer e uomini nuer hanno attaccato donne dinka. Una lotta fratricida che non si ferma allo scontro etnico: ci sono persino casi, come nello stato di Unione, in cui uomini nuer favorevoli al governo hanno stuprato donne della loro stessa etnia per il solo sospetto che parteggiassero per l’opposizione.
Dal 2013 la situazione non si è stabilizzata, anzi, si è fatta sempre più liquida, con tensioni e alleanze che hanno generato una polveriera dai contorni incerti.
La secessione dal Sudan nel 2011, e la proclamazione dell’indipendenza, hanno rinvigorito l’ottimismo del Sud Sudan, sia in termini di autosostentamento che in termini di autodeterminazione. Complici di questo, anche le notevoli risorse petrolifere locali, promessa di un riscatto politico ed economico non del tutto robusto e definito. Inevitabile, in una condizione ancora troppo fragile dal punto di vista interno, l’acuirsi del dissidio tra i due esponenti al vertice del Paese: Salva Kiir e Riek Machar, rispettivamente presidente e vicepresidente in carica.
Sul finire del 2013 alcuni militari di etnia dinka, fedeli a Kiir, hanno intrapreso duri scontri con i soldati dell’esercito di etnia nuer, in seno al quale si sospettava un golpe. I soldati nuer si sono schierati sotto l’egida di Machar, in attrito sempre più palese con il presidente. Un effimero accordo di pace, raggiunto nell’estate 2015 dopo le pressioni della comunità internazionale, ha portato alla creazione di un governo di transizione, panacea di una guerra civile ormai radicata. Dopo un temporaneo allontanamento, nell’aprile 2016 il ritorno di Machar nella capitale, Juba, ha ulteriormente destabilizzato il mosaico politico interno, sino all’ormai insanabile frattura tra fazioni rivali.

Parole di Giovanna Tedde