Rita Atria vittima della mafia perché perse la speranza

Rita Atria si è suicidata una settimana dopo l'omicidio di Paolo Borsellino, vittima della mafia e di quello Stato incapace di assistere realmente i testimoni e i collaboratori di giustizia.

Rita Atria vittima della mafia perché perse la speranza

Una bara bianca è, se possibile, ancora più triste di qualsiasi altro feretro. Il legno smaltato di bianco non presenta venature, nè nodi, come se volesse dimostrare che chi c’è lì dentro non aveva ancora rughe sul volto. Il colore, simbolo di purezza e candore, mette invece in evidenza che all’interno c’è il corpo di un innocente. Più triste di una bara bianca è soltanto una bara bianca sola, abbandonata da tutti e senza nessun corteo funebre. Nemmeno una madre che piange la morte della propria figlia, soprattutto se quella figlia era una ribelle come Rita Atria.

Fu proprio il suo animo ribelle e quella sua innata propensione a trasgredire le regole a far sì che nemmeno la madre partecipasse al funerale e che, qualche mese più tardi, addirittura si recasse al cimitero con un martello per distruggere il marmo tombale e la fotografia di quella sua figlia ancora adolescente. [Leggi qui l’importanza della sepoltura per la mafia]

Se è vero quindi che bisogna insegnare ai propri figli non solo a difendersi dal male ma anche a riconoscerlo, di sicuro la madre di Rita, morta suicida a soli 17 anni, non avrebbe potuto assolvere a questo compito perché nemmeno lei sapeva riconoscerlo. Probabilmente era perfino convinta che il mondo del marito, Vito Atria, mafioso della cosca degli Accardo ucciso in un agguato nell’85, non lo fosse e che quindi sua figlia fosse una «fimmina con lingua longa e amica degli sbirri».

Forse, però, quella madre era solo consapevole di non aver avuto lo stesso coraggio della figlia o forse voleva solo proteggerla da quella mafia che le aveva già tolto il marito e il figlio. Così anche quell’infame gesto compiuto dopo la sua morte assume un altro significato: non un oltraggio, non un voler prendere la distanze, ma una dimostrazione di disperazione. Oramai aveva perso tutto, ma se il marito e il figlio li riteneva già spacciati per aver deciso di entrare in quel mondo e sapeva di non poter fare nulla, Rita avrebbe potuto salvarla convincendola a non mettersi contro quella gente. E soprattutto, in un contorto quanto umano processo di colpevolizzazione, secondo la madre, Rita avrebbe dovuto evitare di denunciare per non lasciarla da sola.

Fortunatamente, però, Rita seppe scegliere da sola i suoi modelli: prima Piera Aiello, quella cognata che, il giorno in cui fu ucciso il marito Nicola, decise di collaborare con la giustizia e combattere quel mondo criminale, e poi addirittura il giudice antimafia Paolo Borsellino. Quella scelta coraggiosa di Piera convinse, infatti, anche Rita a schierarsi dalla parte della giustizia e raccontare tutto quello che già sapeva sui traffici della sua famiglia nonostante fosse poco più che una bambina, permettendo così di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala e di avviare un’indagine sull’onorevole democristiano Vincenzino Culicchia.

Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino, all’epoca Procuratore di Marsala, e così fra i due si strinse un rapporto quasi familiare: per Rita quell’uomo fu il padre che tanto avrebbe voluto, ma che non ebbe mai.

Tanto è vero che il 26 luglio del 1992, esattamente una settimana dopo l’omicidio di chi incarnava il suo “sogno”, scrisse su un biglietto «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura, ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta».

E, poi, si lasciò cadere dal settimo piano, vittima della mafia e di quello Stato incapace di assistere realmente i testimoni e i collaboratori di giustizia.

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