Psicologia della ninfomane

Il termine ninfomane, nato nell'Ottocento per classificare le donne che avevano comportamenti sessuali devianti secondo la cultura del tempo, ignorante a proposito della sessualità femminile e ferocemente misogina, oggi viene utilizzato soprattutto quando raccontiamo di qualche ragazza che sembra non averne abbastanza del sesso, indipendentemente dagli individui con cui consuma, dalle situazioni, dall'avere una relazione o no. Questo intendiamo, nel linguaggio comune, quando parliamo di ninfomania. Sbagliamo?

Psicologia della ninfomane

Il termine ninfomane, nato nell’Ottocento ad opera della psichiatria per classificare quelle donne che avevano comportamenti sessuali devianti secondo la cultura del tempo, cultura decisamente ignorante a proposito della sessualità femminile e ferocemente misogina, oggi viene utilizzato soprattutto nei discorsi da bar, quando con occhio complice e ammiccante raccontiamo di qualche ragazza che sembra non averne mai abbastanza… del sesso, indipendentemente dagli individui con cui consumare, dalle situazioni, dall’avere una relazione sentimentale o no. Questo intendiamo, nel linguaggio comune, quando parliamo di ninfomania.

Fortunatamente la psicologia – così come la società – si è evoluta, e la ninfomania non compare più tra le patologia presenti nel DSM, cioè il Manuale delle Malattie Mentali, dove fu inserita come “deviazione sessuale”.

Scrivere di ninfomania oggi non può prescindere dall’uscita del film di L. Von Trier, Nymphomaniac, dove il regista racconta la storia di una donna ossessionata dal sesso, che compromette le sue relazioni d’amore, sentendosi “riprovevole” e una brutta persona, seppur sia percepibile un sottile compiacimento in ciò che fa, giorno dopo giorno.

Ma qual è il confine da superare per cui avere un fortissimo interesse per il sesso può diventare patologico?

Esistono moltissime possibilità che riguardano il modo di vivere la sessualità, sia in termini qualitativi che quantitativi. Non esistono standard e modalità accettate, se non quelle relative al rispetto dell’altro e al condividere insieme ciò che si vuole e desidera. Per molte persone il sesso è al centro delle loro vita, che comunque è piena di altre cose; per altre è un elemento più marginale, importante ma non fondamentale; per la maggioranza la sessualità si modifica, segue i cambiamenti della persona e alterna momenti momenti intensi a momenti più quieti.

La domanda da farsi è: “Sono in grado di gestire la mia sessualità e viverla pienamente, oppure la subisco, ne sono vittima, non riuscendo a controllarmi e pentendomi spesso di ciò che faccio?”

Se c’è sofferenza, malessere, allora è sempre il caso di farsi aiutare, di prendere consapevolezza di ciò, di smetterla di pensare che nulla può cambiare, noi per primi. La dipendenza del sesso, come tutte le dipendenze, copre bisogni emotivi ben più profondi, intimi, che vanno riconosciuti e soddisfatti.

Questi pensieri riguardano la patologia e il singolo individuo. Poi però mi chiedo: perché una donna fortemente erotizzata viene additata e condannata crudelmente, sicuramente in un modo imparagonabile rispetto al corrispettivo maschile?

Se una donna si sente riprovevole perché ha impulsi sessuali che fatica a gestire non può che trattarsi di un problema culturale: da quando la storia ha avuto inizio, il “maschile” ha gestito il potere screditando e mortificando il “femminile”, tenendolo soggiogato perché ne era terrorizzato.
Il mondo femminile è portatore infatti dell’unico immenso potere di cui il maschio ha necessità e da cui è dipendente: la capacità di generare figli. Tutto ciò che è legato alla possibilità generativa in relazione al corpo femminile e alla sessualità ha quindi sempre subito condanne e accuse infondate, dettate dalla paura. Anche se ne abbiamo fatta di strada, molta ne rimane da fare.

Il termine popolare per indicare l’ipersessualità maschile è satiriasi; nessuno lo conosce, ovviamente, perché nessuno sente l’esigenza di additare un uomo per questo “problema”. Appunto.