Manipolazione affettiva: la storia di Sabrina. Con appello!

Sabrina è una giovane donna che ha vissuto una relazione con un uomo che ha saputo tenerla in una gabbia agendo tramite il suo senso di colpa. Oggi fa fatica a credere che chi la lascia libera sia interessato a lei, ma è sulla strada della guarigione.

Manipolazione affettiva: la storia di Sabrina. Con appello!

La manipolazione affettiva è qualcosa che nella nostra quotidianità ci troviamo a vivere molto più spesso di quanto si possa pensare. Ogni giorno può infatti capitarci, in modo più o meno consapevole e in ogni ambito della nostra vita, di esserne vittime e a volte anche responsabili. Spesso colui che tende a mettere in atto tale modalità è un individuo che ha una personalità narcisistica. Ma a volte è possibile trovarla anche in chi ha una personalità debole e remissiva che mediante atteggiamenti differenti può comunque manipolare l’altro, utilizzando la propria presunta debolezza e fragilità. A volte chi tende a manipolare ha un comportamento palesemente manipolatorio, arrogante, aggressivo e critico. Mentre altre volte tende a nasconderlo ad arte, rendendo in questo modo ancor più difficile all’altro ogni possibile difesa.

Su questo tema, vi voglio raccontare la storia di Sabrina, che si è confidata e mi ha accolta tra le sue braccia, nel raccontarmi la sua esperienza di manipolazione affettiva.

“Era arrivato a dire di avere un cancro. E non lo disse a me ma alla mia migliore amica. Sapeva perfettamente qual era il tasto su cui pigiare per riuscire ad accendere la mia inclinazione a rimanere con lui: il senso di colpa.
La scelta della malattia e della persona a cui riferirlo non erano, dunque, casuali: nessuna delle due cose era sbagliata per riuscire a farmi sentire in colpa. Furono proprio questi, infatti, i miei primi due pensieri: è malato e io l’ho appena lasciato e – inoltre – nonostante i tanti anni passati insieme, ha scelto un’altra persona per parlarne. Devo fare qualcosa – pensai ancora – ma, soprattutto, devo recuperare la sua fiducia. Bingo.

La nostra è stata una storia durata dieci anni. Una di quelle che iniziano perché due adolescenti si incontrano su una panchina e si fanno bastare uno sguardo per decidere che potrebbero provare a stare insieme. Io 15 anni, lui 19.
Era iscritto all’Università, lavorava; nessuna serata oltre le righe, sempre posato e controllato anche tra i corridoi della discoteca che frequentavamo. Socievole, sì, ma sempre con una punta di diffidenza: dettaglio, questo, che lo faceva apparire come una persona responsabile, capace di calibrare ogni cosa, senza mai lasciarsi troppo andare.

Ci volle poco per innamorarmi di lui e nonostante riconoscessi i suoi sentimenti nei miei confronti, mi fece aspettare mesi prima di confessarmeli.
Elemosinavo briciole di parole d’amore come una mendicante in cerca di cibo; andavo verso i miei 16 anni e mi sentivo già imbattibile nel mio processo di ammorbidimento di quella persona sempre così gelida.
Lo ricordo, poi, il giorno in cui – finalmente – mi disse ‘ti amo’: era una sera d’inverno, uscivo dal cinema con mia madre. Ti amo, me lo disse, certo, per sms; poi aggiunse: ‘anche se avrei voluto dirtelo a voce stasera, se solo ci fossi stata…’.
Avrei dovuto capirlo subito. O, forse, a capire qualcosa, quella sera, fu lui: la mia inclinazione al senso di colpa si rivelò proprio in quel preciso istante.

Gli chiesi scusa per non esserci stata, gli spiegai che non potevo sapere che avrebbe voluto dirmi che mi amava proprio quella sera, che avrei fatto in modo di recuperare.
Lui capì, sì; e, infatti, fu proprio quello il momento in cui – inconsciamente – decidemmo le basi alle quali si sarebbe appoggiata l’intera nostra storia, durata quasi undici anni.

L’inizio fu una guerra che lui combatteva silenziosamente. Nessun missile, nessuna bomba, nessuno spargimento di sangue: solo tattiche e strategie.
I primi nemici da eliminare erano, ovviamente, le mie amiche. Mi convinsi che non erano brave compagne di vita, iniziai a vederle come un intralcio alla nostra storia: la gabbia dorata che lui stava iniziando ad arredare, per me, iniziava a piacermi. E, in essa, c’era posto solo per noi due. Nessun altro incluso.

In poche settimane cancellai definitivamente le serate con le mie amiche; negli anni, iniziai a organizzare gli appuntamenti per prendere un caffè con loro in base agli impegni lavorativi di lui. Se faceva il turno della mattina, con le ragazze ci facevo colazione: così, al pomeriggio, sarei potuta stare con lui; se lui faceva il turno del pomeriggio, le incontravo la mattina.
Durò per un po’, finché non mi disse: ‘Non è giusto che una fidanzata esca a divertirsi mentre il suo uomo è al lavoro…’. Colpita e affondata.

Fu, quello, il periodo in cui iniziarono le ‘nostre’ litigate. I motivi erano sempre i soliti e ruotavano intorno alla gelosia: colleghi, amiche, persone con cui scambiavo due parole al supermercato. Non dimenticherò mai il giorno in cui, uscendo da una macelleria, mi chiese – con la calma di chi si sta accendendo una sigaretta -: ‘Ma tu devi per forza sorridere a tutti? Era così necessario mettersi a parlare con il macellaio?’.

È difficile riconoscere di star vivendo un disagio quando si tratta di una quotidianità che ti viene iniettata in vena una goccia alla volta; e se non riesci a vederlo, come puoi spiegarlo? Come puoi renderti conto di aver bisogno di una scappatoia?

Le sue capacità di persuasione erano perfettamente coperte dalla maschera dell’uomo perfetto: affezionato alla famiglia – anche alla mia -, sempre attento ai bisogni di ogni membro, legato alle tradizioni. Lavoratore, bravo con i bambini, capace in tutto, rispettoso del galateo: mai che mi abbia fatto pagare una cena, nemmeno dopo anni di relazione.
Questo, per me, era sufficiente per decidere di rimanere con lui per l’intera vita che mi restava.
Una doppia personalità, la sua, che riusciva a rendermi dipendente dalle sue manie, curatrice delle sue insicurezze, assorbente delle sue mancanze.

Iniziai a essere come lui. Anzi, iniziai a essere lui: se lui era molto geloso di me, io ero molto gelosa di lui. Se lui amava un certo stile di vita, lo amavo anche io. Il gioco era semplice: aveva passato qualche anno, ormai, a farmi pensare di essere la parte sbagliata della coppia. E lui, ovviamente, quello perfetto. Non mi rimaneva, quindi, che essere come lui per riuscire ad essere ‘giusta’ anche io. Solo che – giusta – non lo ero mai.

Quando, dopo undici anni, trovai il coraggio di lasciarlo, mi accorsi di non essere capace di fare shopping: avevo passato troppo tempo a comprare vestiti in base a quello che piaceva a lui.
Non ero più nemmeno in grado di capire cosa piaceva a me.

Ma, nonostante ciò, ogni volta che mi vedeva, aveva sempre qualcosa da sottolineare: come mai non hai la gonna? Come mai non hai le scarpe col tacco? E io, puntualmente, a rimediare la volta successiva.
Ormai avevo capito cosa voleva che indossassi ed ero diventata bravissima a colpire nei suoi gusti: mi bastava sentirlo dire che ero bella, che stavo bene. Tutti i miei sforzi erano valsi a qualcosa.

Cambiai i miei sogni lavorativi, mettendo nel cassetto quelli che coltivavo fin da bambina. Organizzai una vita che ruotasse intorno ai suoi impegni: a volte mi sentivo soffocare ma, evidentemente, era il prezzo da pagare per l’amore.

L’unica concessione che avevo era quella di andare in palestra: ma frequentavo quella di cui era titolare un suo amico, quindi era tranquillo. Accadde proprio lì, invece, la prima rottura della perfezione che mi sembrava di guardare.
Lo tradii. Con un ragazzo che conobbi tra un attrezzo e l’altro.
Non ci fu che uno scambio di baci con questa persona, ma fu un errore che mi portai addosso per più di un anno.
Lui lo scoprì controllando tutti i miei Social – di cui aveva, ovviamente, ogni credenziale – e fu, quello successivo, uno degli anni peggiori della mia vita.

Mi faceva credere di avermi perdonato per un attimo e cinque minuti dopo iniziava a piangere, a urlare, ad affibiarmi i peggiori insulti. Arrivai a pensare di meritarmi ogni singola parola, ogni singolo gesto aggressivo, arrivai a pensare di meritare di morire, perché quello che avevo fatto era troppo grave: avevo rovinato tutto, avevo ferito lui, la persona che, più di ogni altra, mi amava.

Non ricordo come e quando siamo usciti dal tunnel del senso di colpa da tradimento: so per certo che è durato più di un anno. Così come so per certo – solamente ora – che si era reso conto fin da subito che il tradimento non era che il primo segnale che qualcosa, dentro di me, stava avvenendo.

Averlo tradito significava essere scappata al suo controllo ossessivo, significava aver preferito un altro uomo a lui, significava aver colpito il suo ego. Significava aver dimostrato di riuscire a essere più forte di lui. Non poteva sopportarlo. Per riportarmi ‘al mio posto’ e rimettere equilibrio alla situazione che avevo palesemente messo in disordine, dunque, non rimaneva – da parte sua – che attuare un piano d’azione lungo e persuasivo.
Un anno intero, dunque, dicevo: in cui ogni singolo giorno mi veniva ripetuto e ricordato l’errore commesso. Condito da urla, silenzi, scatti d’ira. Avevo 19 anni.

Fu un anno in cui il suo controllo aumentò: quando ero a casa, dovevo chiamarlo dal telefono fisso per dimostrargli di non essere uscita di nascosto. Capitava che leggesse prima di me i messaggi che mi arrivavano sul cellulare. Se mi permettevo di dire qualcosa, la leva del senso di colpa veniva tirata su immediatamente. E funzionava.

A volte scoprivo che chattava con diverse ragazze – che lui cercava – e quando glielo sottolineavo, mi faceva credere fosse tra le pene da pagare per meritare il perdono. ‘Come ci si sente? È brutto, vero?’ mi diceva. E a me bastava per zittirmi.

Nessuno sospettava niente perché, come sempre, all’esterno lui era perfetto: le gite fuori porta con le famiglie, la cura delle entrate economiche – non ho mai avuto una buona gestione dei soldi, io, cosa che avevo quindi affidato a lui -, i gesti di affetto nei miei confronti quando eravamo in compagnia. Impossibile, dunque, chiedere aiuto ed essere creduta.

Quell’anno finì ma con esso non finirono i meccanismi che, nel frattempo, si erano innescati: restammo fidanzati per altri 6 anni, durante i quali provai a lasciarlo. Fu quando si inventò del cancro, con la mia amica. E tornai indietro.

Fu una vacanza, l’ultima che facemmo insieme, a farmi rendere conto di non voler stare più con lui: la notte, in quell’albergo, piangevo sempre. Volevo tornare a casa. La mattina non era mai in stanza, andava a correre. E io mi sentivo sola. Tornati in città, non durammo che qualche mese: lo lasciai, nel più brutale dei modi.

Il seguito non fu facile: pedinamenti, appostamenti, minacce. Iniziarono ad avere paura anche le mie amiche che, per fortuna, mi erano vicine.

Quando – le persone che sanno – mi chiedono come sia riuscita a liberarmi da quella situazione, non so ancora rispondere. Credo non lo saprò mai. Ma ‘liberarmi’, forse, non è la parola giusta: libera, quando si vivono certe relazioni, è difficile imparare a esserlo.

La mia più cara amica mi fa sempre notare di avere tutt’oggi dei comportamenti legati a quella relazione: chiedo scusa in continuazione – anche se non ho risposto a un messaggio perché ero in doccia -, avviso sempre di ogni singolo spostamento che faccio, temo fortemente il giudizio, elemosino pareri positivi su di me. Ne sono consapevole, certo, questo è un gran primo passo e forse non è passato ancora abbastanza tempo per dirmi finalmente ‘guarita’.

Sto con una persona, ora. Capita che mi chiami, durante il giorno, e mi chieda dove sono perché non se lo ricorda più. E la trovo la cosa più bella del mondo. Sono libera, con lui. Ma è difficile, a volte, non soffrire per questa libertà: ho passato gli anni in cui ho formato le mie basi sentimentali – l’adolescenza – con una persona che aveva un concetto troppo singolare di libertà.
Per me l’amore è sempre stato quello: e ancora oggi, quindi, fatico a non credere che chi mi lascia libera sia perché non è interessato a me.
Ma, finalmente, respiro. Finalmente so stare sola. E non c’è libertà più grande.”

Grazie Sabrina, per la tua storia.
Mi auguro che sia un grido di speranza per tutti coloro che hanno vissuto e stanno vivendo situazioni simili.
Un incoraggiamento a distaccarsi o a riconoscere subito questo subdolo comportamento.

Parole di Gaia Parenti