Linguaggio e grammatica contro la discriminazione femminile

Qualche regola per evitare di incappare nel sessismo linguistico, di scadere nella discriminazione di genere attraverso le parole.

Linguaggio e grammatica contro la discriminazione femminile

Linguaggio e grammatica contro la discriminazione femminile? Sì, perché il sessismo può rintanarsi, e neanche troppo nascosto, tra le parole, tra le espressioni prettamente maschili e maschilistiche, dalle accezioni dispregiative. Perché è fondamentale riconoscere, anche utilizzando il linguaggio appropriato, le differenze di genere. Da questa esigenza, dalla necessità di rombere il muro del sessismo linguistico, una volta per tutte, o almeno provarci, è nato il manuale “Donne, grammatica e media”, edito da Giulia, un’associazione autonoma di giornaliste, e firmato da Cecilia Robustelli.

E se il rischio da evitare è il sessismo, per quanto di sessismo linguistico si tratti, meglio saperlo riconoscere. Dito puntato, innanzitutto, contro l’utilizzo discriminante della lingua italiana, sia quando si parla sia, soprattutto, quando si scrive. Uso discriminante che prende la forma di espressioni maschili per indicare ruoli istituzionali o figure professionali che hanno come protagoniste le donne. Perché si dice prefetto e avvocato spesso e volentieri? Perché si sente più spesso, a prescindere che si tratti di un uomo o una donna, parlare di ministro e assessore, sindaco e consigliere?

Perché è abitudine comune, quanto sessista e discriminatoria, utilizzare termini maschili per indicare ruoli e professioni, senza distinzioni di genere. Distinzioni di genere che, però, sarebbero imposte, oltre che dall’etica e dalla par condicio, dalla parità tra i sessi e dal buon senso, anche dalle regole basilari della grammatica italiana. Infatti, incasellare una donna in un ruolo sociale o politico, professionale o pubblico utilizzando un termine maschile è una scelta contestabile anche dal punto di vista meramente tecnico linguistico. Perché secondo la grammatica italiana un soggetto femminile vuole aggettivi declinati al femminile.

Tra le professioni che mettono più in crisi, quando si tratta della distinzione di genere, ci sono l’architetto e l’assessore, il deputato e il medico, ma anche il ministro e il notaio solo per citarne alcuni.

Un cenno a parte per i sostantivi che terminano in –essa. Se un tempo secondo alcuni, aggiungere il suffisso –essa poteva essere dispregiativo. Oggi si tende a utilizzarlo meno solo perché rischia di appesantire le parole stesse. Meglio, quindi, “avvocata” di “avvocatessa”. Via libera, invece, a termini come dottoressa e professoressa, poetessa e principessa, non sostituibili con altre forme.

Da evitare, poi, l’articolo davanti al cognome, utilizzato soprattutto quando ci si riferisce a persone che ricoprono cariche istituzionali, politiche o professionali. Perché se non si dice “Il Renzi”, meglio evitare anche di lasciarsi sfuggire “La Boldrini”.

Parole di Camilla Buffoli