La lettera di Russel Brand per Amy Winehouse, sincera e struggente

Oggi vi presento la lettera che Russel Brand ha scritto sul suo sito per la sua amica Amy Winehouse, un punto di vista diverso, sincero e senza ipocrisia che fa riflettere.

La lettera di Russel Brand per Amy Winehouse, sincera e struggente

Oggi vi voglio proporre un contenuto un po’ diverso sulla morte di Amy Winehouse, ne ho sentite tante, la stampa si è scatenata con foto e contenuti, ma nessuno ha scritto la verità vera, quella che è lontana dalla melassa che ha battezzato Amy genio e sregolatezza e l’ha subito incasellata nel club dei 27. Qualcuno ha scritto “se l’è cercata” ma non è questo il punto, il punto è che quando il vizio diventa la normalità, quando la tua vita cade a pezzi e non sai chiedere aiuto, non ti rendi conto di volerne, forse resta sempre l’amarezza della certezza che qualcuno avrebbe potuto cambiare le cose. Con una carezza, una telefonata, un ricovero coatto. Oggi vi presento la cosa più sincera e bella che è stata detta su Amy, la lettera che Russel Brand ha scritto per Amy Winehouse.

Amy Winehouse è un’artista bravissima e questo si deve sempre puntualizzare perchè anche se la sua voce è affogata tra alcool e fragilità, anche se l’ultimo album è del 2006 e gli ultimi concerti sono stati un disastro, lei un genio lo è davvero. Quando succedono queste cose mi chiedo sempre se era evitabile, se qualcuno poteva fare qualcosa per darle un’alternativa, una ragione di più…
 
A parlare oggi è Russel Brand che, da ex tossicodipendente, guarito, dice la sua, senza finto buonismo, ma parlando di lei e di lui, della debolezza e della fragilità chi non ce l’ha fatta e di chi è riuscito a uscirne fuori (come lui).
 
Leggete…
 
“Per Amy
 
Quando si ama qualcuno che soffre della malattia della dipendenza ti aspetti la telefonata. Ci sarà una telefonata. L’auspicio sincero è che la chiamata verrà dal tossicodipendente stesso, che ti dice di averne abbastanza, che è pronto a smettere, pronto a provare qualcosa di nuovo. Naturalmente, però, si teme l’altra chiamata, il triste rintocco notturno da un amico o un parente che ti dice che è troppo tardi, se n’è andata. Frustrante non è una chiamata che non avresti mai voluto ricevere. E’ che è impossibile intervenire.
 
Conoscevo Amy Winehouse da anni. Quando l’ho incontrata la prima volta vicino a Camden era solo una un po’ scema con una giacca di raso rosa che si trascinava per i bar con amici comuni, la maggior parte dei quali erano in band indie forti o erano figure periferiche di Camden che cercavano una strada nella vita con un impotente carisma. Carl Barrat mi ha detto che “Winehouse” (che di solito chiamavo così perché mi piaceva e trovo una specie di divertimento nel chiamare una ragazza per cognome) era una cantante jazz, che mi ha colpito come una bizzarra anomalia in quella folla. A me, con la mia limitata conoscenza musicale, questa informazione poneva Amy di là di un confine invisibile di pertinenza; “cantante jazz? Deve essere una eccentrica” ho pensato. Ho chiacchierato con lei in ogni caso, però, era dopo tutto, una ragazza, e lei era dolce e singolare, ma soprattutto vulnerabile.
 
Io stesso in quel periodo ero appena uscito fuori dalla riabilitazione ed ero assetato di cercare donne meno complicate, quindi ho subito riflettuto sul fatto ormai lampante che la Winehouse e io abbiamo condiviso una sciagura, la malattia della dipendenza. Tutti i dipendenti, indipendentemente dalla sostanza o dal loro status sociale, presentano un sintomo costante ed evidente: che non sono molto presenti quando si parla con loro. Loro comunicano con l’utente attraverso un velo appena percettibile, ma non-ignorabile. Se un senzatetto rompipalle ti importuna per 50 penny per una tazza di tè o una coca, o un dirigente gessato schiuma fuori dal suo “motoscafo” c’è un’ aura tossica che impedisce il collegamento. Hanno l’aria di essere altrove, che stanno guardando attraverso di te, da qualche altra parte dove preferirebbero essere. E naturalmente lo sono. La priorità di ogni dipendente è quello di anestetizzare il dolore di vivere per facilitare il passaggio della giornata con un certo sollievo acquisito.
 
Di tanto in tanto mi imbattevo in Amy che aveva battute buone, quindi abbiamo potuto chiacchierare un po’ e farci una risata, era “un personaggio”, ma quel mondo era una lama a doppio taglio, drogati e opportunisti. Io ero uno di loro, anche nel primo recupero mi sono tenuto a galla solo aggrappandomi ai corpi di estranei come Winehouse, ma per la sua peculiare dolcezza non particolarmente registrata.
 
Poi è diventata famosa in maniera massiccia e mi aveva fatto piacere vederla riconosciuta ma soprattutto sconcertato perché non aveva esperienza con il suo lavoro e questo non è il 1950, mi chiedevo come un “cantante jazz” avesse raggiunto una tale importanza culturale. Non ero abbastanza curioso per fare qualcosa di così estremo come ascoltare la sua musica o andare in uno dei suoi concerti, sono stato me stesso diventando famoso a quel tempo ed è stato un consumo di tutte le esperienze. E’ stato solo per caso, quando ho partecipato ad un concerto di Paul Weller alla Roundhouse, che io abbia mai visto un suo concerto.
 
Ero arrivato tardi e mentre mi facevo strada tra il pubblico attraverso sorrisi di plastica e bicchieri di plastica ho sentito il suono lungo e persistente, la risonanza meravigliosa di una voce femminile. Entrando nello spazio dove ho visto Amy sul palco con Weller e la sua band; e poi lo stupore. Lo stupore che ti avvolge quando stai assistendo a un genio. Dalla sua presenza stranamente delicata a quella voce, una voce che sembrava non venire da lei, ma da qualche parte oltre anche Billie e Ella, dalla fonte di ogni grandezza. Una voce che è stata riempita con tanta forza e dolore che era al tempo stesso del tutto umana e divina. Le mie orecchie, la mia bocca, il mio cuore e la mente tutte immediatamente aperte. Winehouse. Winehouse? Winehouse! Che idiota, l’eyeliner e tutte le birre bionde a Chalk Farm Road sotto quei capelli raccolti in testa, le labbra che avevo visto solo stringere una pescivendola frocia e sgocciolare maledizioni, ora sono un portale per questo suono sacro. Così ora ho capito. Non era solo qualche sfortunata aspirante, e nemmeno un’altra nullità arrabbiata che non ce l’aveva fatta, né una cantante da dieci penny che si stava godendo il suo quarto d’ora. Era un genio caxxo.
 
Sciocco superficiale io che adesso la considero sotto una luce diversa, la luce che ardeva dal paradiso quando cantava. Che ora la illumina e così una nuova fase della nostra amicizia ebbe inizio. Venne ad alcuni dei miei spettacoli in TV e radio, la vedevo ancora in giro, ma ora l’attendevo con un po’ più di interesse. Pubblicamente, però, Amy divenne sempre più definita dalla sua dipendenza. I nostri media sono però più interessati alla tragedia che al talento, e così l’inchiostro ha cominciato a difettare dal lodare il suo dono per fare la cronaca della sua rovina. I rapporti personali distruttivi, il sangue ha intriso le scarpette da ballo, gli spettacoli cancellati, la pazzia di youtube con il topo bambino. Nella percezione pubblica questo effimero pettegolezzo sostituì il suo talento senza tempo. Questo, e il suo comportamento nei nostri incontri occasionali, mi fece rendere conto della gravità della sua condizione.
 
La dipendenza è una malattia grave, finisce con il carcere, il manicomio o la morte. Avevo 27 anni quando attraverso l’amicizia e l’aiuto dei Chip Somers del centro di trattamento Focus12 ho trovato il recupero, dopo la messa a fuoco fui presentato a sostenere borse di studio per alcolisti e tossicodipendenti che sono molto facili da trovare, e aperta a chiunque con un desiderio di smettere di bere e senza la quale non sarei vivo.
 
Ora Amy Winehouse è morta, come molti altri le cui morti inutili sono state retrospettivamente romanzate, a 27 anni. Se questa tragedia fosse evitabile o no è irrilevante. Non è prevenibile oggi. Abbiamo perso una donna bella e di talento per questa malattia. Non tutti i tossicodipendenti hanno l’incredibile talento di Amy. O Kurt o Jimi o Janis, alcune persone hanno solo dolore. Tutto quello che possiamo fare è adattare il nostro modo di vedere questa condizione, non come un crimine o un vezzo romantico, ma come una malattia che uccide. Dobbiamo rivedere il modo in cui la società tratta i tossicodipendenti, non come criminali ma come persone malate bisognose di cure. Abbiamo bisogno di guardare il nostro modo in cui il governo finanzia la riabilitazione. E’ più economico riabilitare un tossicodipendente piuttosto che mandarli in prigione, così la criminalizzazione non ha senso nemmeno economicamente. Non tutti conoscono qualcuno con il talento incredibile che Amy aveva ma conosciamo tutti ubriachi e drogati e tutti hanno bisogno di aiuto, e l’aiuto è là fuori. Tutto quello che dovete fare è prendere il telefono ed effettuare la chiamata. Oppure no. Ad ogni modo, ci sarà una telefonata”.
 

Parole di Serena Vasta