Femminicidio e centri antiviolenza, intervista a Titti Carrano: "I finanziamenti sono bloccati"

"I finanziamenti ai centri antiviolenza sono bloccati", è questa la denuncia fatta da Titti Carrano, presidente dell'Associazione Di.Re (donne in rete contro al violenza), durante la nostra intervista.

Femminicidio e centri antiviolenza, intervista a Titti Carrano: “I finanziamenti sono bloccati”

Dietro ai volti e alle terribili torture che leggiamo ogni giorno sui giornali ci sono donne che chiedono aiuto. Solo recentemente il fenomeno del femminicidio sta avendo il risalto mediatico che meriterebbe ma i mezzi concreti per affrontare queste situazioni sono spesso inadeguati e mostrano ancora una volta la mancanza di responsabilità da parte delle istituzioni. Per aiutare le donne che vogliono uscire dalla spirale di violenza ci vogliono le risorse e la volontà di creare un vero percorso culturale che purtroppo, ad oggi, manca nel nostro Paese. Ci sono realtà che da decenni portano avanti la loro battaglia quotidiana per cambiare le cose: i centri antiviolenza e le case rifugio. Molti di questi, nel 2008, si sono riuniti nell’Associazione Di.Re (Donne in rete contro la violenza) diventando una realtà di riferimento per affrontare il problema. Solo nel 2012 sono state più di 15mila le donne che si sono rivolte ai loro centri, di cui più del 69% italiane, a differenza dello stereotipo comune che le vuole straniere e lontane dalla cultura nazionale. Lo stesso vale per gli autori della violenza: il 72,17% sono uomini italiani, il più delle volte persone con le quali le donne hanno, o hanno avuto, un legame affettivo. Abbiamo intervistato la Presidente di Di.Re, Titti Carrano, per aiutarci a creare un quadro d’insieme sul fenomeno e per delineare le criticità ancora oggi presenti nell’approccio alla questione del femminicidio.

Come associazione DiRe quanti centri avete nella vostra rete? La distribuzione è capillare o presenta delle diversità da Nord a Sud?

Attualmente siamo 66 centri antiviolenza e case rifugio, dislocate in varie parti d’Italia, anche se la distribuzione geografica non è ancora omogenea. La presenza maggiore è nel Nord Italia e non abbiamo una rappresentanza in alcune regioni. In Molise ad esempio non sappiamo attualmente se esistano dei centri antiviolenza.

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Come DI.RE avete più volte messo in discussione le leggi in materia di violenza sulle donne, criticandone soprattutto l’aspetto repressivo che, secondo voi, non arriva al punto vero del problema, puntando sempre tutto sotto un piano d’emergenza. Qualcosa è cambiato con gli ultimi governi?

Negli anni abbiamo ribadito la nostra ferma opposizione a logiche sicuritarie e d’emergenza, perché la violenza maschile nei confronti delle donne non è un’emergenza. Non siamo solo noi a sostenerlo, ma la stessa Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata anche dall’Italia e che entrerà in vigore il 1° agosto 2014, ribadisce che la violenza contro le donne è una questione culturale e politica profonda quindi è importante che ci siano delle riforme strutturali. Nel passato abbiamo assistito ai vari Pacchetti sicurezza, dove le misure introdotte sono sempre state in linea a una logica sicuritaria. Per l’ultimo decreto legge dell’agosto 2013, convertito poi in quella che viene definita erroneamente la Legge sul Femminicidio, abbiamo presentato molte critiche. Il problema fondamentale è proprio la logica su cui si basa, ovvero l’emergenza. Il testo del decreto legge è stato conosciuto solo al momento della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, cioè alla sua entrata in vigore, e le associazioni che da anni lottano contro il fenomeno della violenza maschile non sono state coinvolte nella discussione o nella sua elaborazione, nonostante siano sicuramente una risorsa indispensabile, fatta d’esperienza e di saperi dalla quale non si può prescindere per una stesura di una qualsiasi legge su questi temi. Ci aspettavamo una legge organica e finanziata che affrontasse tutti gli aspetti civili, amministrativi e penali, ma il decreto, poi convertito in legge, prevede sostanzialmente solo norme penali e soprattutto ha un contenuto eterogeneo, non specifico sul problema. Al suo interno prevede infatti norme sul commissariamento delle province, sulla protezione civile e altre materie estranee alla violenza contro le donne. Ci si limita purtroppo all’uso dello strumento penalistico come forma privilegiata di contrasto al fenomeno della violenza di genere, non c’è alcuna relazione tra questo tipo di politica legislativa e la libertà della donna. Era necessaria una legge organica strutturata e strutturale che affrontasse tutti gli aspetti, con un sostegno adeguato ai diversi centri antiviolenza.

Avete anche protestato contro l’irrevocabilità della denuncia. Le ultime stime Istat disponibili parlano di circa 7 milioni di italiane che hanno subìto una forma di violenza, fisica o sessuale, nel corso della propria vita ma di queste soltanto il 7% l’ha denunciato: è questo il vero problema? Avete fatto delle proposte diverse che sono state prese in considerazione?

Sull’aspetto dell’irrevocabilità della denuncia, dobbiamo ricordare purtroppo che moltissime donne sono state uccise dopo aver sporto regolare denuncia. L’irrevocabilità della denuncia è una responsabilità che attualmente lo Stato non è in grado d’assumersi, perché presupporrebbe anche un sistema di protezione davvero efficace, in grado di tutelare la donna, dal punto di vista della sua sicurezza e dal punto di vista delle risorse messe a disposizione. La realtà è ben diversa: non c’è un vero processo di protezione dal momento della denuncia in poi. In Italia ci sono ancora pochi centri antiviolenza, non tutti possono offrire ospitalità alle donne e ai loro figli, i posti letto sono gravemente insufficienti. A questo proposito, abbiamo una famosa raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1997, che nel nostro Paese è completamente disattesa: dovremmo avere un posto letto nelle case rifugio ogni 7500 abitanti e un centro d’emergenza ogni 50mila abitanti. Noi dovremmo avere quindi in Italia oltre 5.700 posti letto e invece ne possiamo contare circa 500. Alle donne vittime di violenza devono essere garantiti diritti sociali ed economici, come gli accessi ad alloggi a prezzi accessibili, il diritto a una formazione e riqualificazione professionale e un programma d’aiuto nella ricerca di un lavoro che assicuri la propria sussistenza oltre a quella dei propri figli.

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Il Piano nazionale contro la violenza e lo stalking approvato nel novembre 2010 dall’allora Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna aveva durata triennale, ci sono sviluppi in merito? I finanziamenti ai vostri centri sono poi avvenuti?

Il Piano nazionale contro la violenza del 2010 non aveva concretezza o obiettivi specifici ed è rimasto totalmente inapplicato e irrealizzato. L’aspetto più critico riguarda il non riconoscimento dei centri antiviolenza come luogo d’esperienza pluriennale contro questo fenomeno specifico, equiparandoli di fatto a un qualsiasi centro di tipo assistenziale, pubblico o privato, mentre invece esiste una profonda differenza. Sempre legato al Piano ci sono stati dei bandi pubblici per l’apertura di nuovi centri o il potenziamento di attività già esistenti, ma sono ormai tutti in scadenza. Finito il finanziamento adesso il problema che si pone è la sostenibilità di questi centri appena nati. Questi bandi sono infatti esauriti. Con la legge cd femminicidio è previsto invece un piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che prevede finanziamenti sia ai centri sia alle attività di formazione, prevenzione e sensibilizzazione. Il problema è che questo piano non è stato ancora varato. Con il precedente Governo, come associazione DiRe, avevamo partecipato ai lavori della task force interministeriale per la sua elaborazione ma con il nuovo Governo Renzi questi lavori si sono completamente bloccati, ed è evidente come non si possano finanziare attività che non sono state ben ancora definite. L’altro tipo di finanziamento previsto, ovvero quello specifico ai centri antiviolenza, è anch’esso completamente bloccato. Abbiamo rivolto in questo senso un appello all’inizio di aprile a Renzi, chiedendo anche la nomina di un ministro per le Pari Opportunità proprio perché è importante avere un punto di riferimento per coordinare tutte le attività necessarie, per continuare quelle già cominciate con il precedente esecutivo e per sbloccare i finanziamenti previsti dalla Legge 119 del 2013. Dopo il nostro appello il Presidente del Consiglio Renzi ha trattenuto a sé la delega sulle Pari Opportunità ma al momento il lavoro del Dipartimento per le Pari Opportunità, che stava svolgendo un ruolo istituzionale di coordinamento molto importante nelle varie amministrazioni, è bloccato. Nel concreto non è cambiato nulla. in favore di questi progetti.

Cosa differenzia i vostri centri da quelli di assistenza privata? In cosa consiste un centro antiviolenza?

I nostri centri non sono istituzionali, sono autonomi, gestiti soltanto da donne, e hanno lo specifico obiettivo di aiutare le donne a uscire dalla violenza attraverso percorsi individuali, sostenute da operatrici specializzate. Noi non consideriamo le donne come delle vittime ma come persone in difficoltà che hanno bisogno d’aiuto per mettere in pratica un percorso di libertà. Abbiamo una particolare metodologia di accoglienza, perché consideriamo l’arrivo al centro come un momento di passaggio e di transito verso l’autonomia, un luogo di libertà. Negli anni ’90 le donne dei Centri antiviolenza hanno cominciato ad incontrarsi e a confrontarsi sulla metodologia dell’accoglienza. La garanzia dell’anonimato e la tutela della privacy, il rispetto della scelte delle donne, il riconoscimento della loro dignità e la valorizzazione delle loro risorse: sono questi alcuni dei punti fondamentali della relazione di aiuto che le operatrici dei centri instaurano con le donne. E soprattutto il rispetto dei tempi delle donne perché ci sono cose che le donne non possono e non riescono a raccontare subito. Hanno necessità di riuscire a provare nuovamente fiducia. La metodologia di accoglienza è basata sul rafforzamento della identità della donna e sulla relazione tra donne. L’intervento è di carattere relazionale, non terapeutico in senso tecnico, e consiste in un percorso di colloqui – a cadenza periodica e di durata variabile – finalizzato al raggiungimento di obiettivi stabiliti con la donna, secondo tappe concordate. Ogni azione (denunce, separazione, attivazione dei servizi, ecc.) viene intrapresa solo con il consenso della donna. I Centri antiviolenza non utilizzano lo strumento della mediazione familiare, in linea con una vasta letteratura che lo considera dannoso, oltre che inutile, nelle situazioni di violenza domestica. Le operatrici, sia volontarie che retribuite, devono avere una formazione specifica sulla violenza, aggiornamenti continuativi e una supervisione periodica atta a proteggerle dal rischio di burn out. I centri antiviolenza non sono soltanto attivi per l’accoglienza e l’assistenza, come vorrebbe una immagine diffusa ma riduttiva: rappresentano, invece, luoghi di progettualità e di protagonismo femminile e di saperi.

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Quali difficoltà avete riscontrato nell’attuazione dei vostri progetti e come le avete superate o pensate di superarle?
I problemi fondamentale sono due. Il primo è quello culturale: la violenza contro le donne va nominata e riconosciuta e solo quando questo avviene, si possono fare degli interventi specifici. Molte volte all’interno dei percorsi giudiziari, la violenza viene confusa con il conflitto. Su questo abbiamo lavorato e presentato delle linee guida per il servizio sociale proprio per affrontare i casi di violenza contro le donne. Il secondo problema è di tipo economico: i finanziamenti se non sono costanti e adeguati non consentono una progettualità.

Quali sono i programmi di protezione e reinserimento delle donne che hanno subito violenze che mettete in atto nei vostri centri?
Noi possiamo aiutare e sostenere le donne nell’orientamento al lavoro ma la responsabilità deve essere pubblica. Lo Stato deve dare a queste donne la possibilità concreta d’inserirsi nuovamente nel mondo del lavoro. Dobbiamo ricordare infatti che moltissime donne continuano a vivere con il partner violento perché non hanno l’indipendenza economica oppure perché non possono pagarsi l’affitto di una casa. Le donne vengono affiancate con programmi specifici, non standardizzati di sostegno psicologico; le aiutiamo in un percorso di riqualificazione professionale, sempre che sul territorio esistano questi tipo di progetti.

In linea generale quali sono le più grandi difficoltà che deve affrontare una donna vittima di violenza? Quali sono i casi più diffusi che affrontate?
C’è tantissima violenza psicologica che è anche quella più difficile da riconoscere nelle aule giudiziarie, dalle forze dell’ordine e dal servizio sociale, poi sicuramente quella fisica o diversi atti persecutori ma anche molta violenza economica. La paura delle donne è proprio questa: non sapere come fare a mantenersi al di fuori del proprio contesto, soprattutto se hanno figli.

Quando la situazione di violenza coinvolge anche i figli? Come ci si può muovere in questo senso, ci sono tutele diverse? Avete programmi che aiutino le donne anche per questo?
La stragrande maggioranza delle donne che si rivolgono ai nostri centri hanno figli e figlie, quindi ci troviamo sempre di fronte a bambini e bambine che hanno subito una forte violenza psicologica o fisica. I centri intervengono non con un tipo d’aiuto assistenziale, che lascerebbe la donna sempre in una situazione di tipo passivo, mentre il nostro obiettivo è quello di trovare le risorse, precedentemente soffocate dalla sua situazione di violenza, per una propria indipendenza. In questo senso ci sono molti laboratori di diverse attività, anche ludiche, per aiutare i bambini a superare il trauma delle violenze alle quali hanno assistito per anni.