Felicia Bartolotta Impastato, ovvero cosa vuol dire essere la mamma di un eroe dell'antimafia

Se Peppino Impastato fu un ribelle lo si deve principalmente alla madre, Felicia Bartolotta.

«Sai contare? Sai camminare? E contare e camminare insieme lo sai fare?» Si dice che fossero queste le domande con cui Peppino Impastato era solito incalzare i giovani siciliani per invogliarli a contare quanti passi distava la loro casa da quella del boss del quartiere o del paese. Cento passi distava casa sua da quella di Gaetano Badalamenti e quei cento passi aveva imparato a contarli grazie a sua madre, Felicia Bartolotta, che non solo gli aveva insegnato quanto fosse vicino la mafia ma soprattutto a tenerla lontana.

Se, infatti, Peppino Impastato fu un ribelle capace, con la sola forza della voce, di arrivare nelle case e soprattutto nelle menti di molti giovani siciliani, lo si deve principalmente alla madre che, dopo avergli mostrato la bellezza della legalità, da un lato con le sue raccomandazioni tentava di salvargli la vita, dall’altro con il suo esempio lo esortava, forse inconsapevolmente, alla ribellione.

Nata a Cinisi, in provincia di Palermo, nel 1916, si ribellò una prima volta al potere del padre quando, pochi giorni prima del matrimonio, decise di non sposare l’uomo che lui aveva scelto per lei, ma al suo posto scelse Luigi Impastato. Solo che – ammetteva Felicia – «Io allora non ne capivo niente di mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo».

L’uomo di cui si era innamorata, infatti, era legato alla mafia locale: il cognato di Luigi, Cesare Manzella, marito della sorella, era il capomafia del paese. Ma Felicia decise di non chinare la testa e iniziò la sua battaglia interna alla famiglia. E anche lei scelse di utilizzare soprattutto la forza della parole: «Dicevo sempre a mio marito – racconterà poi nel libro ‘La mafia in casa mia’ – “Stai attento, perché gente dentro [casa] non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre». Queste, che oggi possono sembrare le normali minacce di una moglie verso il marito, all’epoca e in quell’ambiente devono essere risuonate come un vero e proprio affronto.

La vera guerra di Felicia iniziò il 5 gennaio del 1948, quando nacque Giuseppe, perché dovette strapparlo dalle grinfie del padre e dello zio che tentavano di portare quel loro primo discendete verso la malavita. Ma la guerra fra la legalità e la mafia di Felicia continuò anche dopo, quando ormai Peppino Impastato era stato salvato dalle fila della criminalità organizzata e iniziava la sua battaglia per riportare la legalità in Sicilia. Nei quindici anni di attività politica di Peppino Impasto, Felicia sarà continuamente sbattuta fra un marito amico di mafiosi sempre più potenti, come lo stesso Gaetano Badalamenti, e il figlio sempre più scomodo e pericoloso per quel sistema criminale.

Felicia doveva innanzitutto difendere il figlio dal marito che lo aveva cacciato di casa, ma anche tentare di difendere Peppino da se stesso. Si racconta che, ogni volta che il figlio scriveva un articolo contro la mafia sul giornale ‘L’idea socialista’, andasse in giro per Cinisi nel disperato tentativo di raccogliere tutte le copie e distruggerle. Quando poi Peppino decise di entrare in prima persona in politica e candidarsi alle elezioni, Felicia non ebbe mai il coraggio di andare ad ascoltare i suoi comizi: forse non voleva prendere coscienza di quello che da lì a poco sarebbe accaduto.

«Guardavo mio figlio – racconterà poi ad Anna Puglisi e Umberto Santino che l’hanno aiutata a redigere il diario della sua vita – e dicevo: “Figlio, chi sa come ti finisce”». Lo scoprì la mattina del 9 maggio 1978. Lo scoprì la mattina di esattamente 36 anni fa.

La notte fra l’8 e il 9 maggio Peppino non si trovava da nessuna parte, nemmeno i suoi amici, i suoi compagni di partito e di lotta sapevano dove fosse finito. A Felicia non restò nemmeno un corpo su cui piangere: il suo cadavere venne completamente sbriciolato da una carica di tritolo. Per cercare di distruggerne anche l’immagine, gli assassini inscenarono un finto attentato, in cui la stessa vittima apparisse come attentatore suicida, abbandonando il suo corpo pieno di esplosivo sui binari della ferrovia.

Fortunatamente quel vile tentativo di distruggere l’immagine di Peppino Impastato, facendolo passare per un terrorista, fallì miseramente e, pochi giorni dopo la sua morte, gli elettori di Cinisi scrissero comunque il suo nome sulla scheda elettorale e riuscirono a eleggerlo al Consiglio comunale, anche se soltanto simbolicamente.

Fu proprio quel gesto simbolico a dare nuova vitalità a Felicia che capì di non poter far divenire vano il sacrificio del figlio e quindi decise di costituirsi parte civile, quando era ancora possibile farlo anche durante la fase istruttoria del processo, per ottenere giustizia per Peppino.

Anche questa scelta le costò cara: dovette rompere definitivamente con i parenti del marito che le sconsigliavano di rivolgersi alla giustizia, di allearsi con i compagni di Peppino e con i soci del Centro siciliano di documentazione di Palermo, ma soprattutto di parlare con i magistrati, con i giornalisti e perfino con la gente. Felicia, invece, decise di aprire casa a tutti coloro che volevano conoscere Peppino, perché – diceva – «la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia».

La storia di Felicia Impastato dimostra quanto sia vera la credenza secondo cui «dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna». E quella donna molto spesso è la madre.

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