La figlia del boss si suicida: "Il cognome le pesava"

Maria Rita Lo Giudice si è suicidata lanciandosi da un balcone per il peso del cognome che gravava su di lei. Sembra, dalle prime indagini, che il gesto sia scaturito dall'insofferenza per essere la figlia del boss della 'ndrangheta, ora in carcere, ritenuto membro della famosa cosca.

La figlia del boss si suicida: “Il cognome le pesava”

AP/LaPresse

Maria Rita Lo Giudice, figlia di un boss della ‘ndrangheta, si è uccisa a soli 25 anni lanciandosi dal balcone della sua casa a Reggio Calabria. Secondo le prime dichiarazioni dei conoscenti la ragazza viveva nella sofferenza per l’appartenenza a una famiglia con un cognome di spicco nel tessuto criminale di stampo mafioso. Un peso sul cuore che Maria Rita non avrebbe più saputo gestire. Figlia di Giovanni Lo Giudice, in carcere perché ritenuto membro chiave dell’omonima cosca in cui compaiono anche nomi più noti (come gli zii della ragazza, Luciano e Nino), Maria Rita non ha lasciato nessun biglietto per spiegare le ragioni del suo gesto. La ragazza si è lanciata nel vuoto dal balcone della sua abitazione di Reggio Calabria, sita al secondo piano di una palazzina. Gli inquirenti propendono per il movente del malessere di essere legata per sempre alla famiglia Lo Giudice, un simbolo della malavita.

Maria Rita Lo Giudice soffriva per essere figlia di un boss?

E’ questa la spiegazione che gli amici danno al suicidio di Maria Rita Lo Giudice: “Il cognome le pesava”, è una delle risposte più facili da trovare nei racconti di chi la conosceva. Quello che emerge, nel drammatico quadro di una così tragica fine, è quanto gli stessi inquirenti stanno tenendo come pista principale in questo caso: la ragazza sarebbe stata schiacciata dal peso di una firma di ‘ndrangheta tra le più pesanti a Reggio Calabria. Il suo stesso cognome, per la comunità locale, è sinonimo di malavita, estorsioni, omicidi.
Il destino di Maria Rita, nel dipinto che ne danno le persone a lei più vicine, è forse strettamente legato a quelle corde che tengono soggiogate le donne di mafia alle dinamiche di vita e di morte della cosca di appartenenza, diretta o indiretta. Il suicidio di Maria Rita potrebbe rientrare in questo spettro di vite relegate ai margini della legalità, in una vera e propria inquietudine nel sentirsi il futuro ipotecato da una sorte già scritta.
Sul tavolo del procuratore Federico Cafiero De Raho e del pm Romano Gallo,ci sono i verbali del fidanzato, dei parenti e degli amici di Maria Rita Lo Giudice, utili a delineare più chiaramente quello che anche per chi indaga è un suicidio.
La ragazza aveva tentato di emanciparsi da quell’ambiente, e lo aveva fatto con una laurea in Economia a pieni voti, che forse per lei avrebbe potuto rappresentare la chiave per aprire le porte della felicità.
Alcuni amici hanno però riferito che “anche all’università, la ragazza si sentiva emarginata per l’ingombranza del cognome”.

Lo Giudice, un cognome inciso negli ambienti della ‘ndrangheta

Non solo il padre di Maria Rita è un esponente di rilievo nel panorama mafioso locale: anche gli zii, Luciano e Nino Lo Giudice, hanno un peso specifico, ben più importante, negli affari della ‘ndrangheta a Reggio Calabria. Entrambi detenuti, hanno vissuto due vicende giudiziarie separate da differenti e gravi reati. Nino, conosciuto nell’ambiente come “Nino il nano“, è oggi un pentito e collabora con la giustizia.
Sono gli anni ’90 a gettare le donne dei Lo Giudice nel vortice della lupara bianca. Nel 1994 una zia della giovane figlia suicida del boss, Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, fu uccisa per aver tradito suo marito durante la reclusione di quest’ultimo insieme ad altri membri della famiglia, compreso Giovanni Lo Giudice.
Di Barbara Corvi, moglie di Roberto Lo Giudice e anch’essa zia della 25enne, si sono perse le tracce nel 2009.

Parole di Giovanna Tedde