'Gulîstan, Land of Roses' al Milano Film Festival: le combattenti curde di Zaynê Akyol [INTERVISTA]

'Gulîstan, Land of Roses' è il lungometraggio di Zaynê Akyol al Milano Film Festival, dove si raccontano i giorni delle combattenti curde del PKK. La nostra intervista alla regista.

‘Gulîstan, Land of Roses’ al Milano Film Festival: le combattenti curde di Zaynê Akyol [INTERVISTA]

Il mondo le sta conoscendo per la loro recente battaglia contro l’Isis ma in realtà quella più antica per la libertà inizia decenni prima, in nome di una terra dove la donna fosse in tutto e per tutto al pari dell’uomo, in pieno Medio Oriente. Stiamo parlando delle combattenti curde del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), protagoniste del lungometraggio “Gulîstan, Land of Roses” di Zaynê Akyol, in concorso al Milano Film Festival. Bisogna dimenticarsi ogni preconcetto in merito alla donna sul campo di battaglia: non ci sono sconti per loro, né in termini di addestramento, né tanto meno in quelli di scontro diretto con il nemico. Le battaglie si svolgono sui monti tra la Siria, la Turchia, l’Iran e l’Iraq, dove le donne soldato sconfitte preferiscono lanciarsi nei dirupi piuttosto che finire nelle mani dell’Isis, dove verrebbero violentate, torturate e vendute come schiave ai paesi arabi alleati dei fondamentalisti.

Il film voleva ripercorrere la vita della baby sitter della regista, Gulîstan, di origini curde, che decise d’unirsi al PKK a diciotto anni e morì in battaglia: “Mi resi conto che le persone con cui era entrata in contatto erano morte oppure troppo lontane da raggiungere – racconta la regista – così decisi di raccontare la guerra che stavano vivendo in quel momento le tante Gulîstan che combattevano sulle sue stesse montagne e per i suoi stessi ideali di libertà”. C’è un aspetto che stupisce subito, a pochi minuti dall’inizio della pellicola: la giovane età di queste combattenti. Molte di loro sono appena maggiorenni. Questo aspetto però non deve far credere che le loro convinzioni siano meno radicate: la coscienza politica va di pari passo con l’addestramento fisico, e sanno perfettamente a cosa vanno incontro ogni volta che partono per una missione. Andare sulle montagne a combattere significa dire addio per sempre alla vita che avevano prima, non vedere quasi mai la propria famiglia ed essere a contatto ogni giorno con la morte: come possono affrontare tutto questo così giovani? “Quando decidono di unirsi al PKK non possono avere nessun tipo di contatto con la loro famiglia per tre anni, per abituarsi al distacco – ci racconta Zaynê Akyol – Passato questo periodo possono telefonare o mettersi in contatto nuovamente con i propri cari, a volte sono gli stessi familiari ad andare sulle montagne a vedere le figlie o le sorelle. Penso che sia una scelta molto difficile ma sul campo si creano una nuova famiglia, diventando molto unite. Quando sei così a stretto contatto con loro capisci che la famiglia non è solo una questione di sangue ma anche e soprattutto di ideali e sogni comuni”.

La regista segue le donne in ogni momento della giornata: dagli allenamenti all’alba fino ai riti di condivisione comune, come pranzi, balli e anche cura di se stesse. C’è spazio anche per questo nelle terre straziate dalla guerra. Cospargersi i lunghi capelli di un unguento all’ortica diventa una piccola parentesi che dona una parvenza di normalità in una vita che deve affrontare ogni giorno la distruzione: “Non lo fanno però per dimenticare la realtà; loro decidono di unirsi al PKK e sanno perfettamente che sono in guerra. Si prendono cura di loro stesse semplicemente perché sono donne – precisa la regista – Non è che perché sono tra le montagne devono dimenticarsi la loro identità. Inoltre è anche una questione di precisione: sono dei soldati, devono avere i capelli legati in un certo modo affinché non siano un impedimento”.

Le donne si addestrano come gli uomini, combattono al loro fianco, si scambiano informazioni di guerra, parlano di armi e muoiono allo stesso modo: “Il sistema per cui combattono si basa proprio sul femminismo – prosegue Zaynê Akyol – Dal 2005 il PKK ha cambiato anche i suoi obiettivi politici: da comunisti sono diventati socialisti e si sono chiesti come potevano liberare davvero il popolo curdo, da sempre perseguitato, se metà delle persone, le donne appunto, non lo erano affatto? Parte tutto da qui, dall’emancipazione della donna in vista di un vero sistema d’uguaglianza sociale, che accetti non solo il ruolo femminile al pari di quello maschile ma anche valori come il pluralismo religioso e il rispetto dell’ambiente. È qualcosa di utopistico in quelle zone, davvero rivoluzionario, ma in quelle da loro conquistate, come potete vedere, funziona”. Si percepisce più volte la mancanza totale di fanatismo, di combattenti disperati, di soldati mandati al macello: la coscienza militare viene addestrata insieme a quella umana, questo ha permesso ai loro militari di conquistare zone presidiate da nemici armati molto meglio, ma che scappavano impauriti. Non c’è la cieca vendetta ma la voglia di liberare e proteggere il proprio popolo da un sistema che ritengono sbagliato: “Voglio che ci sia la possibilità per una donna di diventare una politica un giorno, che scelta avrebbe altrimenti? Diventare una moglie?! Il matrimonio è spesso una schiavitù, molte di loro sono solo donne infelici” racconta una bellissima ragazza dagli occhi verdi.

Nella pellicola non si parla solo di politica o di guerra ma soprattutto di bellezza dell’anima, dell’importanza di conoscere se stessi veramente, di essere fedeli a quello in cui si crede per essere in pace con il proprio io. A fare il discorso è Sozdar, una delle protagoniste del film, una veterana di guerra, “andata e tornata dalla vita molte volte”. Un personaggio forte, mai banale, circondato da un’aura di luce e consapevolezza a volte straniante. Nell’ultima scena del film, prima di una chiusura a nero dello schermo, stanno per partire in battaglia. La protagonista sa benissimo che quello potrebbe essere il suo ultimo colloquio con Zaynê ma nonostante tutto mostra quella fierezza che solo chi crede fermamente nella sua battaglia può avere: “Perché dovrei avere paura della morte? L’ho vista in faccia più volte, tante altre credevo di morire, ma lei ha paura di me” ripete bucando l’obiettivo della cinepresa e arrivando dritta al pubblico. “È un momento molto particolare – racconta la regista – da lì in poi ho spento la videocamera e ha girato lei stessa. Quando mi dice che mi vuole bene, augurandomi un futuro libero, penso che lo dica in realtà a tutti gli spettatori del film, in una sorta di relazione triangolare”.

Il senso di precarietà porta lo spettatore a chiedersi cosa sia successo alle protagoniste del film: “Sono in contatto con Sodzar che ora è molto attiva nell’educazione del popolo, sta cercando di costruire un’Università perché le persone di alcune zone parlano solo Kurmanji, che è un dialetto curdo, diverso dal Sorani, parlato in altre zone. Rojan (un altro personaggio che ci viene presentato nel film, ndr) è morta nel gennaio del 2015 mentre combatteva contro l’Isis a Kobane, come metà delle donne che abbiamo visto”. Si esce dalla sala un po’ frastornati da questo film. L’intreccio di questo ritratto molto intimo di donne che hanno dedicato la loro vita alla ricerca della libertà, si sintetizza nell’augurio di Sodzar, per un futuro dove si potrà avere “il cuore e la mente liberi”.