Eutanasia in Italia, intervista a Marco Cappato: «La vita non può essere una condanna imposta dagli altri»

L'eutanasia in Italia rimane un argomento che fa discutere ma che purtroppo non riesce mai a trovare una vera soluzione. Parlare della morte fa sempre così paura o c'è dell'altro? È sempre e davvero solo una questione di morale etico-religiosa? Ne abbiamo parlato con Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni.

L’eutanasia in Italia rimane un argomento che fa discutere ma che non riesce mai a trovare una vera soluzione. Parlare della morte fa sempre così paura o c’è dell’altro? È sempre e davvero solo una questione di morale etico-religiosa, di chi pensa che la vita sia un dono ricevuto dall’alto e di chi invece pretende che vengano applicate le leggi Costituzionali di uno Stato laico? Di queste e altre domande abbiamo parlato con Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, una realtà che da anni è impegnata nella battaglia per ottenere un’eutanasia riconosciuta dalla legge.

Partiamo da un concetto base, ovvero le norme che regolano questo delicato momento dell’esistenza di ogni cittadino. La Costituzione nell’articolo 32 stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e nell’articolo 13 afferma l’inviolabilità della libertà personale, quindi, dove s’inceppa il meccanismo? “Ci sono casi in cui per interrompere un trattamento sanitario è necessario un aiuto attivo da parte di un medico e se non si trova, il diritto è solo sulla carta – dichiara Cappato – Piergiorgio Welby voleva interrompere la respirazione artificiale ma senza soffrire e morire soffocato, con una sedazione che consentisse poi una morte senza dolore. Il primo problema è quindi la disponibilità effettiva, il secondo invece riguarda quei pazienti che non sono attaccati a un respiratore ma che soffrono moltissimo, ad esempio i malati di cancro in fase terminale, che non hanno più nessun tipo di sollievo dalle terapie antidolore se non in dose enormi, e che, per interrompere la propria sofferenza, avrebbero bisogno di un aiuto medico, la famosa iniezione letale. Qui il diritto costituzionale dell’interrompere un trattamento non è sufficiente a garantire che sia imposta una sofferenza che la persona non vuole più e una fine diversa da quella che la persona sceglie”.

Spesso nei dibattiti sul tema si riduce sempre tutto allo scontro etico-giuridico che si delinea tra coloro che ritengono la vita umana un dono sacro e inviolabile e coloro che la ritengono legata alla sfera della libertà personale: è quindi sempre e solo un problema “morale” o ci sono altri impedimenti? “Fino a qualche anno avrei detto che il problema era il peso e l’influenza del Vaticano sulla politica italiana, oggi dopo che il Papa ha invitato a non fare di questi temi un’ossessione del trasformare i precetti religiosi in leggi dello Stato, dico che ci sono più papisti del Papa. Non solo la religione ma anche la politica considera la vita un luogo dove esercitare il proprio potere e quindi si rifiuta di affrontare la necessità di avere buone regole anche per la fine della vita”. Il problema oggi è soprattutto politico e non sembra esser cambiato nulla con il Governo Renzi: “L’esecutivo non si è manifestato in nessuna forma, cosa che non accadrebbe con un’informazione che funzioni davvero, visto che su temi così sentiti e popolari, un leader che vuole essere benvoluto e con un occhio sempre ai sondaggi, com’è Renzi, è aiutato anche dalle tv nazionali a non parlarne troppo”. L’Associazione Luca Coscioni ha depositato una proposta di legge di legalizzazione dell’eutanasia e di chiarezza per quanto riguarda l’interruzione delle terapie a settembre 2013 ma neanche azioni concrete sembrano bastare per affrontare di petto la questione: “In tutto questo tempo, il Parlamento italiano non ha mai nemmeno discusso per due minuti sulla proposta, non hanno fatto un’audizione, e tutti i gruppi sono stati d’accordo, o d’accordo nel silenzio. Solo il Presidente della Repubblica e la Presidente della Camera hanno invitato per l’ennesima volta il Parlamento ad occuparsi della questione, ma finora perfino il loro intervento non è servito. Noi continuiamo la nostra battaglia, aiutando anche i malati, raccogliendo firme sul sito, difendendoli con armi giudiziarie, cercando di dare più risalto possibile all’argomento”.

Non sembrano bastati nemmeno i casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, giusto per citare i nomi più conosciuti della cronaca nazionale. In questi ultimi giorni l’argomento torna d’attualità con il caso di Brittany Maynard, la 29enne americana con un tumore al cervello incurabile che ha deciso di morire a 29 anni. La sensazione però è che dopo la prima fase di dibattito, l’opinione pubblica non si scomponga più di tanto sulla questione: “In realtà è la politica che non si scompone – afferma Cappato – l’opinione pubblica è molto più avanti, la differenza è che in altri Paesi c’è anche un dibattito politico oltre che mediatico. In Italia ci limitiamo ai casi sensazionali, ma tra un caso e l’altro non esiste un dibattito vero televisivo che coinvolga milioni di telespettatori tra le ragioni a favore e le ragioni contro, e la politica scappa terrorizzata. I sondaggi dicono invece che la maggioranza degli italiani, e nel caso del testamento biologico la stragrande maggioranza degli italiani, sono pronti e d’accordo ad avere delle regole che si sostituiscano alla legge della giungla in vigore”.

Grazie alla costituzione non esiste un vero e proprio vuoto normativo ma è necessario regolamentare una clandestinità che oggi coinvolge moltissimi malati, costretti a gesti estremi per porre fine alle proprie sofferenze. Emblematici i casi di grandi artisti del calibro di Mario Monicelli, che si lanciò dal reparto dell’ospedale San Giovanni di Roma dove era ricoverato per un tumore alla prostata, o di Carlo Lizzani che si gettò dalla finestra della sua abitazione. Questa la situazione in Italia, ma in Europa? “Per l’eutanasia legale il Belgio, il Lussemburgo e l’Olanda in Europa sono i paesi che hanno le esperienze più consolidate. Qui, grazie alle regole, si verificano le condizioni di salute, si coinvolgono i familiari, si richiedono degli esami psichiatrici, per capire che sia una volontà reale, e solo allora si interviene, distinguendo quindi i comportamenti accettabili da quelli non accettabili”. Parlare della morte non significa denigrare la vita, ne sono esempio le tante battaglie che proprio Welby condusse prima di decidere di porre fine alla sua esistenza: “La vita non può essere una condanna imposta dagli altri, Welby si è battuto in vita con Coscioni per la ricerca sulle cellule staminali, per avere gli audiolibri per chi è impossibilitato a girare le pagine, per il voto domiciliare dei disabili. Il grande messaggio che arriva dalla sua esperienza di vita è quella di non confondere una battaglia di libertà con una battaglia di morte. Ognuno l’affronta in modo diverso, se vogliamo dare invece una risposta per tutti perché imposta da uno Stato etico, allora diamo una risposta sbagliata per tutti”.